Scritti

Teatro


Titolo:
Funambolico Fo

Tecnica:
n.d.

Dimensioni
n.d.

Note:
Da Informart , marzo ’97

FUNAMBOLICO FO


Corre voce che l’Ente Lirico di Cagliari, sulla scia del successo del “L’italiana in Algeri”, abbia intenzione, per la programmazione estiva, di mettere in cantiere “La storia di un soldato” di Dario Fo. Se la memoria non ci inganna Dario Fo realizzò questa “azione scenica” nel 1978 per la stagione del bicentenario del “Teatro alla Scala” di Milano. Trattasi di uno spettacolo che, pur partendo dal ben noto “Histoire du soldat” di Strawinskij, viene completamente “rivisitato”, per non dire stravolto, dal funambolico Fo.


L’opera originaria prevede un settetto e quattro interpreti: ricordiamo l’edizione dell’ente cagliaritano del 1978 di cui, sotto la direzione musicale di Massimo Biscardi e la regia di Arnoldo Foà, erano interpreti lo stesso Foà (narratore), Massimo Giuliani (il soldato), Giampiero Fortebraccio (il diavolo) e Assunta Pittaluga (la principessa).


L’azione scenica di Fo prevede l’aggiunta alla partitura di altri brani musicali e la presenza in scena di 32 attori-mimi che, per una durata di circa due ore, eseguiranno le azioni della vicenda, con l’inserimento di scene completamente nuove, come la città che crolla, la nave dei folli, la sequenza della guerra e il volo sulla macchina del diavolo.


Ci piace ricordare fra gli interpreti dell’edizione scaligera del ’78 i giovanissimi, allora, Paolo Rossi e Marco Columbro, destinati in seguito a due carriere e due percorsi artistici del tutto diversi.


Ma la notizia della versione scaligera della “Storia di un soldato” di Fo, nella prossima stagione estiva cagliaritana, ha tinto di attesa e curiosità quanti, da opposte fazioni, avevano, in precedenza, potuto misurarsi col talento creativo dell’istrionico e trasgressivo regista. Così, anche questa volta, gli amanti della “purezza” della scrittura scenica e musicale di Strawinskij (non molti per la verità tra i frequentatori del teatro lirico e sinfonico), leveranno il loro grido di dolore come, non tanto tempo fa, avevano fatto gli amanti dell’opera rossiniana, in questo caso “L’italiana in Algeri”, opera buffa che, nelle versioni di repertorio proposte dai vari teatri, di buffo ha poco o niente.


Anche in questo caso Dario Fo “contamina”, come amano dire in molti, l’opera, già di per se stessa innovativa e trasgressiva, del maestro russo, ma per la verità crea un’opera del tutto nuova e autonoma, inserendo anche altri brani di Stawinskij, come l’Ottetto, che ha la stessa grinta, la stessa ironia, la stessa potenza de “L’histoire du soldat”.


L’idea di fondo è la stessa, tratta delle “Storie del soldato” di Afanas’ev, raccolte dalle reclute contadine reduci dalle guerre russo-turche, come racconta lo stesso Strawinskij, che fin dal ’17 ebbe l’idea di comporre uno spettacolo drammatico per un théatre ambulant, uno spettacolo popolare, agile, con pochi esecutori, tale da consentire rappresentazioni in un circuito di villaggi svizzeri e con una trama così semplice da essere facilmente capita. - Tra l’altro, nei suoi Colloqui con Robert Craft, Strawinskij racconta anche della sua passione per il jazz americano e come il gruppo strumentale dell’Histoire sia simile ad una jazz-band, sottolineando quanto quest’opera abbia segnato la sua rottura definitiva con la scuola orchestrale russa nella quale era stato allevato -.


Il senso è il senso delle storie popolari, del mondo rovesciato, delle tante astuzie del villano che deve “inventarne una più del Diavolo” per sottrarsi alle angherie e all’arroganza dei potenti, fino alla conquista della felicità che, nella “semplice filosofia popolare”, si concretizza col ritrovamento del tesoro, ultima speranza di affrancamento dalla povertà, e con la conquista del cuore della principessa.


Il Diavolo è il Diabolus della cristianità, il signore dei vermi, una persona, figura tipica nella letteratura russa, dalle molte facce e dai mille travestimenti (si pensi a Il Maestro e Margherita e Cuore di cane di Bulgakov).


Il racconto fiabesco, quindi, quello popolare, non la fiaba d’Autore ma la fiaba scritta da una coralità di voci, sempre uguale e sempre nuova per le stratificazioni aggiunte dai narratori, dai cantastorie.


E Dario, fin da ragazzo, si porta addosso le fantasie di quei fabulatori che giravano attorno al Lago Maggiore, nelle campagne del Varesino, nelle piazze e nelle osterie, dove raccontavano strane storie, un poco ingenue, un poco matte, come racconta lo stesso Fo: - “Le loro storie erano semplici iperboli, desunte dall’osservazione della vita quotidiana, ma al di sotto di queste storie “assurde” si nascondeva la loro amarezza; l’amarezza di una gente delusa e di una satira acerba – rivolta al mondo ufficiale – che pochi forse coglievano”.


Ed eccolo quindi che inizia ad inventare storie che lui stesso recita, con alcuni suoi colleghi studenti, in chiave farsesca e satirica, “dove si susseguono personaggi boriosi e ridicoli in una dimensione di cartapesta, privi di qualsiasi umanità concreta, gonfi di retorica astratta” (Lanfranco Bienni). E il periodo de Il Politecnico di Vittorini e delle frequentazioni con Morlotti e Cassinari, quando, studente di architettura si dedica anche alla pittura e vuole decisamente rompere con lo strisciante provincialismo culturale e cercare un’apertura a livello europeo. Il periodo da studente d’architettura lascia un’altra traccia nei futuri sviluppi del suo teatro: -“Studiando architettura – racconta – mi sono interessato alle chiese romaniche. Rimasi stupito come opere così poderose potessero essere espressione non di intellettuali o di artisti con la A maiuscola, ma di semplici scalpellini, di semplici operai e muratori, ignoranti e analfabeti. Scopersi improvvisamente una cultura nuova, vera; la forza creatrice di coloro che sono sempre stati definiti i “semplici” e gli “ignoranti”, che sono sempre stati i “paria” della “cultura ufficiale”. E dalle raffigurazioni delle pareti delle chiese romaniche Fo ha attinto molti “documenti” grotteschi e fiabeschi che poi diventeranno patrimonio iconico e di senso delle sue “moralità” quando metterà in scena il suo “Mistero Buffo”. E questo della farsa, della denuncia graffiante sarà il filo rosso che unirà in un unico grande mosaico tutta la sua produzione teatrale. E in questo solco che si colloca anche la sua “Storia di un soldato” del ’78.


Il “teatro di strada”, “l’opera da piazza”, con trenta attori-mimi, tutti giovanissimi, provenienti in gran parte da una scuola di teatro, la Civica di Milano, ma con un piccolo gruppo di professionisti di grande esperienza. “sfonda” i confini dell’opera da camera di Stravinskij, una storia “senza tempo”, come ama definirla lo stesso autore russo, e vi entra, dilatandola, con precisi riferimenti all’attualità politica e sociale (per esempio il “Caso Moro”), con la forza del tragico e del grottesco, col “suo” senso etico del teatro, rovesciando la morale della rassegnazione (insita nella tradizione della fiaba) e la struttura della fiaba stessa (dove alla fine vivono tutti felici e contenti), un’esperienza tentata spesso, in quegli anni, anche dalla pedagogia antiautoritaria. Un’operazione non facile ma che in questo caso ha avuto successo. Durante l’esperienza del Ci ragiono e canto (1966) Fo precisa bene il senso del suo fare teatro, sia nei contenuti degli spettacoli, sia nel rapporto con il pubblico: costringere lo spettatore a un lavoro continuo di interpretazione, di decodificazione, di lettura; per farlo uscire dal suo ruolo tradizionale di voyer e obbligarlo a decifrare, scoprire, partecipare in prima persona all’evento, così come, attraverso le rappresentazioni nelle piazze e nei mercati, le giullarate, le moralità e i misteri o le improvvisazioni e le buffonate della Commedia dell’Arte diventavano sempre un fatto collettivo, con la partecipazione del “pubblico”, ovvero della comunità, alla realizzazione dei propri momenti d’arte, per definire una propria identità culturale, espressione dei propri bisogni. C’è una frase – come sottolinea Ugo Volli – nel dialogo de “La storia di un soldato”, che si può intendere come chiave di lettura per tutto il teatro di Fo: “Bisogna leggere tutto come un rebus”. E questo, come del resto tutti quelli di Dario Fo, è uno spettacolo (e anche qui Ugo Volli non ha dubbi) che obbliga a percorsi critici e fantastici, estetici e politici, che alludono al privato e alla memoria collettiva, variamente afferrabile, inquietante e, quindi, stimolante: Uno spettacolo, insomma, da leggere come un rebus.