Scritti

Carta Vetrata


Titolo:
NEL VORTICE DELLA FOTOGRAFIA

Tecnica:
n.d.

Dimensioni
n.d.

Note:
da InformArt, Dic. 2003

NEL VORTICE DELLA FOTOGRAFIA


Sembra che oggi il mondo dell’arte debba tutto ruotare intorno alla fotografia, visto il successo continuo di mostre fotografiche a tutti i livelli, da quelle ospitate nelle piccole gallerie alle grandi rassegne come, per esempio, la Biennale di Venezia che, da ormai molti anni, dedica alla fotografia in tutte le sue declinazioni gran parte dell’attenzione e dell’interesse. Senza contare le numerose pubblicazioni (libri e cataloghi) che affiancano le tradizionali riviste specializzate. Drappelli sempre più numerosi di giovani seguono con entusiasmo mostre e corsi di apprendimento e di specializzazione (anche in scuole di prestigio), scoprono le “alchimie” della camera oscura (almeno quelli che preferiscono controllare l’intero processo di sviluppo e stampa), si impadroniscono di sottili tecniche di ripresa, fino a gestire, spesso con efficacia, le suggestive provocazioni dell’illuminazione. I più sofisticati, ma ormai lo sono un po’ tutti, rielaborano al computer le immagini e le ripropongono in vario modo, persino in tre dimensioni (per esempio Alba Savoi, che fotografa non è, ma che è una giovane artista di settant’anni, utilizza da molto tempo l’immagine fotografica moltiplicata in xerox per costruire gigantesche “sculture optical”).


Detto questo, affollano la mente molte domande su questa “smania della fotografia”, ma le risposte non le attendiamo dal sociologo o dall’antropologo, le attendiamo in primis dal fotografo. Non dal foto/reporter o dal documentarista, che hanno saputo, qui veramente, travalicare, spesso, il contingente, per restituirci l’anima e dei luoghi e degli uomini in immagini impeccabili, che “anestetizzano” in certo senso il quotidiano e lo sublimano approdando a esiti che oltrepassano il facile approccio a un ingenuo realismo o a costruzioni fastidiosamente didascaliche, banale surrogato della letteratura , e che “timbrano” con la loro forte sensibilità, con la loro lucida capacità di “vedere”, anche il non visibile, “radicandolo” nelle nostre coscienze, nella nostra memoria. E neppure dal “dilettante”, giovane e meno giovane, che da anni coltiva, con competenza e cultura fotografica, questa sua passione, anche semplicemente per “fermare” un momento del proprio vissuto quotidiano, per “sospendere” quell’attimo, “rubandolo” al tempo. Seppure un attimo, semplicemente “guardato”. Quell’attimo rapito dallo sguardo, necessariamente: perché se lo “sguardo” non rubasse al tempo un solo frammento del suo incessante divenire, che senso avrebbe il guardare? Vorremmo averle invece da quanti pretendono di legittimare solo nella “fotografia creativa” (e qui il dibattito dura da lunga data) l’intervento del fotografo/artista, che in camera oscura costruisce l’evento, il “momento magico della creatività”, senza il minimo dubbio di inoltrarsi, invece, in sentieri già percorsi, e “ormai omologati e abusati dai mass media”, come è stato da molti sottolineato. –“Mi pare che fra la creatività di un Andy Warhol – scriveva negli anni ’70 Wladimiro Settimelli – e quella, mettiamo, di un Pepi Merisio, del vecchio Capa o di un Leonard Freed, sia forse giunto il momento di scegliere quest’ultima, senz’altro meno commerciale nelle gallerie d’arte, ma più sana e onesta”-. Il sospetto in noi molto forte è, infatti, proprio quello di trovarci fra le mani una “merce” prodotta con facile disinvoltura, abilmente sofisticata secondo i dettami del mercato, per i “supermarket dell’arte”.


D’improvviso mi torna in mente, sembra passato un secolo, l’incontro a Lisbona con un vecchio fotografo di strada, che usava, per la sua vecchia camera di legno montata su treppiede, un tappo di “Cinzano” come otturatore e scandiva, contando sulle dita, i tempi di esposizione. Consegnava le foto quasi subito, la carta ancora umida di lavaggio, e non erano un granché. Ma tutti posavano volentieri e divertiti per lui, e amavano portarsi a casa quello strano dagherrotipo, tenuto fra le dita, ancora gocciolante. Fotografia di strada, fotografia di vita. Dopo la personale di Odilia alla G28 di Cagliari e la rassegna di San Sperate è la volta di Antonio Mannu, che ha presentato al “Lazzaretto” (25 ottobre – 6 novembre) una selezione di immagini realizzate in India tra il 1998 e il 2001. Si tratta di alcuni reportage che hanno per tema la Kumbh Mela, un pellegrinaggio di massa che si compie ogni tre anni circa in quattro distinte località indiane. Un grande evento che mette in scena significativi momenti di vita, e rivela con chiara evidenza aspetti sociali, culturali ed economici di quel paese. Il primo reportage è dedicato alla Kumbh Mela di Haridwar, un altro alla Kumbh Mela di Allahbadh, tenutasi nel 2001. Del 1999 è, invece, un’ampia documentazione che Mannu ha dedicato alle celebrazioni del trecentenario della fondazione del sikkhismo, una delle religioni del subcontinente indiano. E infine, ecco la città sacra di Varanasi, meglio conosciuta come Benares, città dai mille volti, eletta dai devoti indù come luogo dove terminare la loro esistenza terrena. Una grande finestra, questa mostra, spalancata su un immenso paese ancora per noi segreto e affascinante, che le foto sembrano restituirci magicamente con tutto il suo mistero. Istruttivo e affascinante. Il dibattito è aperto.